Un gruppo di militanti
“Potrete anche pacificare, ma il dopo sarà triste”
MC Vitinho[1]
“Guarda un po’ come è andata a finire”, diceva un compagno l’altro giorno. “Qualche anno fa se eri in una panetteria, a una fermata dell’autobus, e sentivi qualcuno lamentarsi del governo, la cosa ti rallegrava. Noi militanti vi intravedevamo uno spazio per parlare di politica, un lampo di coscienza di classe. Da un po’ di tempo a questa parte, però, le cose sono cambiate. Oggi, quando sento qualcuno lamentarsi, mi metto in allerta: ‘mmm, vuoi vedere che il tipo è Bolsonarista’…”.
1.
Secondo Lula, “questo paese non è stato più compreso a partire dagli eventi di giugno del 2013”. Alcuni mesi prima di essere arrestato aveva dichiarato: “abbiamo creduto frettolosamente che i [fatti] del 2013 fossero una cosa democratica”.[2] Naturalmente, il suo discorso era stato accolto molto male dai militanti che avevano partecipato a quell’ondata di manifestazioni: guarda lì il PT che attacca di nuovo giugno!
Ma Lula aveva torto? Giugno 2013 è stato davvero una “cosa democratica”? In quel fatidico mese, migliaia – e poi milioni – di persone avevano bloccato strade e vie di comunicazione in tutto il paese, si erano scontrate con la polizia, avevano bruciato autobus, attaccato edifici pubblici e saccheggiato negozi. La riduzione del prezzo del biglietto dell’autobus non era una questione da discutere e negoziare, era una richiesta da imporre con la forza. “O il governo l’abbassa, o la città si ferma!”. Non sembra proprio “democratico”… Fu un movimento esplosivo, una rivolta[3] che minacciava l’ordine costituito[4] – l’accordo sancito nel periodo del ritorno alla democrazia, fissato nella Costituzione del 1988, che per due decenni era riuscito a garantire degli standard socialmente accettabili di stabilità e prevedibilità per la politica brasiliana.
Ciò fece paura. Nel bel mezzo della più grande mobilitazione popolare nella storia del Paese, rimanemmo perplessi: se avessimo rotto con l’ordine democratico, che cosa sarebbe potuto accadere? Non c’era una rivoluzione all’orizzonte. In quel momento, la sinistra si scoprì intimamente legata al sistema. Non solo perché era al governo, ma perché dalla fine degli anni ’70 “costruire la democrazia” era diventata la sua meta.
Dal 2013, la sinistra è fuggita dalla rivolta. E lo ha fatto sventolando la bandiera della democrazia. Da un lato, poteva sostenere che le proteste fossero un pericolo per l’ordine democratico e giustificare la repressione;[5] allo stesso tempo, poteva elogiare le manifestazioni e inquadrarle in quell’ordine – cioè, vedere le giornate di giugno come un movimento per “più diritti” e “più democrazia”, cancellandone il contenuto concreto e contestatario. La lotta contro quell’aumento di 20 centesimi non toccava solo un aspetto cruciale delle condizioni materiali di vita nelle metropoli, ma mostrava anche i limiti dei canali di partecipazione che gli ultimi governi avevano affinato. La violenza che aveva invaso le strade lasciò il discorso democratico senza punti di riferimento.
A tal punto che, da allora, l’insistenza sulla difesa dello Stato Democratico di Diritto ci ha dato solo il diritto di perdere i diritti. E le Operazioni di Garanzia della Legge e dell’Ordine si sarebbero presto rivolte contro lo stesso governo che aveva approvato la Legge sull’Antiterrorismo.[6]
Poiché la sinistra si identificava con l’ordine, la contestazione è passata al campo opposto. È stata la destra a portare le masse in piazza per rovesciare un governo (e invertire i simboli e le pratiche di giugno, trasfigurando, ad esempio, l’MPL in MBL).[7] E non ha perso tempo con la “difesa della democrazia”: per raggiungere i suoi obiettivi politici ha saputo usare le istituzioni e giocare tatticamente con i suoi limiti.[8] Coordinando le mosse all’interno dello Stato – nel parlamento, nella magistratura e persino nelle forze armate – con le mobilitazioni di piazza, è arrivata al potere accerchiandolo dall’alto e dal basso, come il “movimento a tenaglia”[9] un tempo seguito dalla sinistra. Nelle parole di Paulo Arantes, questa nuova destra ha resuscitato la politica “come lotta, non come gestione”.[10]
Nelle elezioni del 2018 Bolsonaro ha affrontato lo stesso sindaco che noi avevamo affrontato nel giugno del 2013. E d’altronde anche il presidente eletto con frequenza minaccia la mistica democratica. È politicamente scorretto: non si attiene al decoro coltivato dagli altri attori del gioco politico. Da una webcam nel suo appartamento ha fatto dichiarazioni offensive sui diritti umani, sulle urne elettroniche e sulla Costituzione. Parlando di ciò di cui non si dovrebbe parlare smaschera il consenso costituito attorno alla ri-democratizzazione, svelandone il falso sostrato e chiamando apertamente alla rivolta contro di esso.
Per i sostenitori del patto attaccato da Bolsonaro può essere rassicurante credere che il nuovo presidente sia stato eletto sulla base di menzogne (manipolando gli utenti di WhatsApp con una raffica di fake news); tuttavia, sembra più corretto considerare l’opposto: è stato soprattutto manifestando apertamente verità fino ad allora camuffate che il capitano ha ottenuto tale sostegno popolare. Ma stavolta la rivendicazione della violenza sociale non si muove verso un orizzonte di trasformazione, anzi, ne riduce le aspettative una volta per tutte. L’ipocrisia ha lasciato il posto al cinismo: il mondo è ingiusto, continuerà ad esserlo e, per chi si lamenta, sarà ancora peggio.[11]
Durante la campagna elettorale la sinistra ha costruito il suo discorso contro il pericolo della dittatura. Il problema è che, in pratica, parlava “contro la dittatura per difendere l’ordine stabilito: questo è un buon modo per far considerare la dittatura una possibilità”.[12] Quando le forze che criticano l’ingiustizia sociale diventano le stesse che amministrano tale ingiustizia, abbiamo un corto circuito: il potere della contestazione dell’ordine passa dalla parte di coloro che aprono la porta alla violenza e alla sofferenza assumendole cinicamente non per metterle in discussione ma per ratificarle. Ecco come la stessa percezione della torturante vita quotidiana può diventare una giustificazione per la tortura: “Per le persone abbandonate nelle code degli ospedali, questo è tortura! 14 milioni di disoccupati, questo è tortura!”, sosteneva un elettore di Bolsonaro intervistato nell’estremo sud di San Paolo poco dopo l’elezione.[13]
La ribellione incanalata dalla destra è paradossale: contesta l’ordine esistente usandolo e promettendo di indurirlo – il che ci ricorda il modo in cui João Bernardo definisce il fascismo: una rivolta nell’ordine. Se oggi possiamo parlare di un movimento di tipo fascista non è tanto per il carattere autoritario di Bolsonaro o per i suoi discorsi di odio, ma per l’ambiente popolare rivoltoso che lo nutre.[14]
2.
È vero che rispetto a quello che fu il fascismo classico, la rivolta conservatrice che vediamo svilupparsi nel Brasile di oggi non appare ancora molto radicata. Eppure, dire che non si tratta di un movimento fascista non significa che lo scenario sia più consolante. Alla fin fine anche il “modo di governare del PT” è stato ben differente dall’esperienza socialdemocratica dell’inizio del secolo scorso.
La socialdemocrazia – che propone un programma di riforme strutturali e l’espansione dei diritti universali a tutti i cittadini come contropartita di un’alleanza con il capitale – mal si concilia con i governi petisti, che si limitarono a combinare l’espansione del mercato con politiche pubbliche basate in benefici verso segmenti specifici della popolazione. Ma anche così sono state sviluppate come un’efficiente ingegneria di gestione dei conflitti sociali, incorporando le organizzazioni dei lavoratori nell’agenda del governo. La strategia di “accumulazione di forze” adottata dalla sinistra brasiliana ha significato, nella pratica, la conversione dei movimenti di base entrati in scena nel periodo finale della dittatura, in forze produttive del nuovo patto sociale.
Il progetto di pacificazione reso sempre più efficiente dai governi petisti ha rappresentato in realtà una guerra permanente[15] – evidente non solo negli indici in crescita di sgomberi, incarcerazioni, stragi, torture ed esecuzioni da parte della polizia, ma anche nel lavoro. Al fianco dei dispositivi repressivi e di eccezione, il motore della nostra “economia emergente” è stato un vero e proprio “stato di emergenza economico”[16] nel quale la tragica situazione sociale ha giustificato politiche dettate dall’urgenza. Con la giustificazione dell’ “estensione dei diritti”, sono proliferate varie forme di sottoccupazione, di routine ripetitive e dai rendimenti dubbi, insomma, quelli che si conoscono volgarmente come “lavori di merda” o “vagas arrombadas”.[17]
Il futuro promesso dai programmi di accesso al micro-credito, alla casa di proprietà o all’università, così come l’aumento dell’occupazione (formale e informale), si è dissipato in un presente perpetuo di lavoro massacrante, indebitamento, concorrenza, insicurezza, code, umiliazione negli autobus stracolmi, depressione ed esaurimento nervoso. Il prezzo dell’euforia dei governi Lula e Dilma è stato, insomma, una mobilitazione totale per la sopravvivenza che si è tradotta in dosi sempre maggiori e intense di vita dedicate al lavoro.
Attraverso un’ampia gamma di strumenti, questo regime manageriale è servito a rendere più fitta la maglia capitalistica in Brasile e rafforzare la proletarizzazione nei vari strati e angoli del Paese. Tanto le cosiddette politiche pubbliche di inclusione come il vertiginoso processo di “inclusione digitale” delle masse fino ad allora non connesse, o le stesse opere di infrastruttura che hanno aperto nuove vie di circolazione per il capitale, hanno avuto il ruolo di inserire popolazioni e territori in circuiti di sfruttamento sempre più intensi, mettendo così a disposizione più legna per la fornace dell’accumulazione flessibile. Tutto ciò con alti indici di consenso!
Gli avvenimenti del 2013 hanno rotto il clima pacifico prodotto da tutta quell’euforia. L’ondata delle manifestazioni che irruppe nelle città del Paese ha portato a galla la guerra, mostrando la crisi proprio di quel modello di amministrazione dei conflitti sociali che fino ad allora aveva funzionato così bene. La revoca dell’aumento non fu sufficiente a coprire la falla: non era più possibile dissolvere tutta quella energia popolare e ricostituire la formula magica del consenso. I tentativi di restaurare l’armonia – come i “cinque patti a favore del Brasile” che Dilma annunciò in televisione al momento del riflusso delle proteste – furono vani. La continuità del modello di pacificazione armata sarebbe dipeso, di conseguenza, da un nuovo patto sociale.
Dopo essere stati chiamati in causa per “neutralizzare le forze oppositrici” scese in strada in giugno, gli agenti dell’ordine che da anni accumulavano know-how ad Haiti e nei morros cariocas[18] non hanno più lasciato la scena politica. Oggi è chiaro che non si trattava di episodi isolati di repressione. Nella nuova strategia di governo disegnata per contrastare il pericolo del caos sociale che aveva bussato alla porta nel 2013, le tattiche di guerra – e i suoi comandanti – hanno assunto apertamente un ruolo centrale.
In questo nuovo schema, “Jair Bolsonaro è un nome impreciso”, ma potente, proprio perché è stato capace di combinare l’escalation repressiva con la ribellione sociale liberata nel 2013. In lui confluiscono due tendenze:
La prima: la garanzia della legge e dell’ordine e la promessa di sicurezza nel comando e del fatto che qualunque battito cardiaco contrario sarà violentemente soppresso. La seconda tendenza opera sull’illusione di rottura e sul sequestro della rivolta “tutto sarà diverso da com’era prima” o “bisogna cambiare tutto”.[19]
Se le proteste avevano innescato una rivolta contro l’ordine, anche il suo ritorno sarebbe dipeso dalla mobilitazione di questo sentimento. Nel processo di restaurazione non sono state messe in moto solo le forze repressive: la stessa energia antagonista dei lavoratori è stata diretta contro se stessa. La prospettiva di tornare alla pace, sebbene fosse già improbabile politicamente, si è trovata di fronte anche degli ostacoli economici – con la crisi, l’efficienza dei meccanismi di partecipazione e dei programmi sociali era infatti stata compromessa. È in questo momento che il rancore inizia a suonare funzionale: dato che non ci sono più soldi, che tutti si ammazzino tra loro nella corsa per le briciole. Lo scontro e la rivolta smettono di essere una minaccia per l’ordine trasformandosi in un nuovo tipo di disciplina.
Quando la nuova destra fece dell’Avenida Paulista[20] la sua passarella tra il 2015 e il 2016, la sociologa Silvia Viana[21] osservò che le dimensioni dell’indignazione per la corruzione potessero avere una connessione con l’esperienza nel mercato del lavoro. Che cosa aveva in comune l’odio verde-giallo[22], si domandava, nei confronti di bersagli così diversi come il corrotto, il beneficiario delle quote[23], il movimento per la casa, lo scippatore, il mendicante e il beneficiario di una borsa di studio? Saltano la fila. Si approfittano di scorciatoie e protezioni nella lotta per la sopravvivenza, ricorrono a vantaggi competitivi che producono una concorrenza sleale in un’arena in cui ciascuno dovrebbe correre per sé.
In un contesto di stagnazione economica, la nuova destra ha dato forma politica alla promozione della competizione tra lavoratori. Nell’assumere senza pudore la legge del più forte, ha tracciato un programma d’azione adeguato al livello di barbarie del mondo del lavoro creato negli ultimi decenni. La sopravvivenza dipende dalla resilienza e dalla forza di volontà individuale, e qualunque forma di assistenza è vista come “vittimismo”. Non dovrebbe stupire il consenso alla proposta di liberalizzare il porto d’armi: è l’opportunità di sparare un colpo al proprio concorrente – al tipo che ti ha fatto ritardare nel traffico, che ti ha fatto arrabbiare al lavoro, che ti ha rubato il posto all’università. E nella guerra di tutti contro tutti c’era forse un candidato più idoneo del capitano?
Però “Jair Bolosnaro è un nome impreciso” proprio perché questo fenomeno non si limita alla destra: la promozione della competizione tra lavoratori attraversa tutto lo spettro politico, assumendo coloriture diverse, perfino apparentemente opposte. Basti notare, per esempio, come i linciamenti virtuali promossi dai gruppi conservatori contro i professori considerati “comunisti” seguono una dinamica molto simile a quella dell’“escrache”[24], una pratica che ha guadagnato forza nell’ondata femminista degli ultimi anni. Oltre a distruggere la reputazione del condannato, entrambi sono soliti avere anche l’obiettivo, a volte raggiunto, di fargli perdere il lavoro. In un ambiente sociale attraversato dalla concorrenza, le identità si presentano come trincee per un mors tua vita mea. Da questo punto di vista possiamo comprendere sia la comparsa di strategie di mercato come l’“afro-imprenditorialità”, sia la crescita recente di un movimento nero che abbandona il principio di auto-riconoscimento e rivendica la creazione di “commissioni di valutazione della veridicità razziale” e dei “criteri fenotipici” per perseguire ed espellere colleghi approvati in concorsi e test attitudinali.[25]
I movimenti identitari di oggi sono stati in gran parte fomentati, non c’è dubbio, da politiche mirate (vari tipi di quote, bandi culturali, segreterie speciali per le minoranze ecc.), ma non sono un risultato automatico di queste ultime: costituiscono un fatto nuovo. I loro tratti discriminatori, autoritari ed escludenti, rivelano una tendenza bellicosa che esclude la convivenza tollerante e le aspettative di inclusione coltivate dalla politica del consenso. Accelerando la disgregazione sociale, l’aggravamento della crisi ha ridotto la possibilità di amministrazione dei conflitti; e allo stesso tempo ha rafforzato l’emarginazione della politica a una dimensione dell’urgenza e dell’immediato. A sinistra e a destra i nuovissimi attori condividono la predisposizione al confronto sterile caratterizzato dalla scomparsa di orizzonti ampi di trasformazione della realtà sociale.
Mentre la politica diventa sempre più guerra aperta, le tecnologie di mediazione sociale sviluppate negli ultimi anni suonano obsolete. Nonostante gli sforzi per presentarsi all’altezza delle restrizioni in tempi di recessione implementando misure di austerità, i gestori del PT sono finiti essi stessi per diventare il bersaglio del movimento distruttivo della crisi. L’onda di distruzione che si è abbattuta non solo sui principali operatori dell’ordine politico costituito dal ritorno alla democrazia e sulla sua macchina di governo, ma anche su alcune delle maggiori imprese brasiliane, deve essere compresa come un “annichilimento forzato di tutta una massa di forze produttive”[26], un movimento tipico delle crisi capitaliste, che si accompagna sempre a un aumento dello sfruttamento. La distruzione delle forze produttive, spesso attraverso la guerra, costituisce per il capitale un’uscita d’emergenza sempre efficiente.
3.
Dall’altro lato della lotta di classe, le strade conosciute hanno portato a vicoli ciechi.
Negli anni del successo dei governi di sinistra, la crescita economica si è combinata con l’integrazione dei movimenti popolari al regime capitalista in un complesso ingranaggio di partecipazione e pacificazione che limitava con efficienza qualsiasi orizzonte di contestazione. In quel contesto l’improvvisa esplosione delle rivolte di giovani lavoratori che paralizzavano le città, affrontavano la polizia e forzavano i municipi governati da partiti diversi ad abbassare il prezzo dei biglietti degli autobus aveva qualcosa di insolito. Scoppiando qua e là per il Paese fin dalla rivolta del Buzú – che aveva scosso Salvador de Bahia già nel 2003, primo anno della presidenza Lula –, queste insorgenze indicavano delle possibili brecce nella “monotona paralisi” del periodo:
Per i piccoli gruppi che si mantenevano a sinistra al margine del governo, soffiare sul fuoco dell’ingovernabilità della rivolta era la possibilità di far fronte a tutta quella gigantesca struttura di gestione della lotta di classe. L’esplosione politica violenta nelle strade rifiuta i meccanismi di partecipazione e reagisce alla repressione armata. (…) la rivolta appare proprio come critica distruttiva, come negazione del consenso immobilista.[27]
Solo con la rottura del consenso i conflitti sociali avrebbero potuto superare gli stretti limiti della routine ben amministrata e irrompere apertamente come lotta di classe. Da questo punto di vista, la possibilità della contestazione stava nei movimenti dal carattere insurrezionale che, riportando la guerra a galla, mettevano in pratica la critica alla pacificazione. Oltre alle rivolte sulla questione del trasporto pubblico, ciò si manifestava nei blocchi selvaggi delle grandi opere del PAC[28], testa di ariete dell’espansione del capitalismo nazionale (“sciopero no, terrorismo”, disse un operaio di Jirau)[29]; nella dissidenza dei contadini senza terra che, in dissenso con l’MST[30], hanno occupato l’Istituto Lula[31]; nell’onda spontanea di occupazioni urbane che si sono diffuse nella periferia di San Paolo durante le proteste di giugno quando il sindaco della città era Haddad[32]; nell’aumento vertiginoso degli scioperi dal 2011 – raggiungendo l’apice tra 2013 e 2016[33]– e nella ribellione crescente di questi lavoratori in sciopero contro i loro stessi sindacati; e nel rifiuto collettivo dei liceali alle misure di austerità, rigettando la mediazione degli istituti e occupando le scuole per forzare il governo a fare un passo indietro.
Nella misura in cui le crepe nel consenso si sono trasformate in una voragine, però, il senso di queste lotte cambia perdendo il loro potere di contestazione. I conflitti passano ad essere all’ordine del giorno e la rivolta si costituisce come un dispositivo del nuovo assetto politico. La nostra scommessa nella rottura del consenso si è esaurita insieme al consenso stesso, disorientando le analisi che muovevano da quella scommessa. Da allora, la violenza sociale venuta a galla si avvicina molto di più al caos e alla competizione che a qualunque altra cosa. Alla fine, al di sotto delle strutture di pacificazione c’era solo questo: un tessuto sociale in disgregazione, senza un orizzonte di azione collettiva.
Innumerevoli voci hanno reagito alla scia di distruzione del 2013 invocando la necessità di riprendere la costruzione “di base”. I limiti della rivolta si spiegherebbero per la mancanza di organizzazioni di massa strutturate nell’ambito della casa, del lavoro e dell’educazione. Eppure tali organizzazioni c’erano eccome! Solo che erano parte della macchina di governo contro cui si alzavano le proteste: il partito di sinistra al potere era presente nelle amministrazioni di tutti i 5.570 comuni del Brasile; le due maggiori centrali sindacali del Paese appoggiavano il governo; il maggior movimento di lavoratori agricoli del mondo [MST, NdT] e una serie di movimenti di lotta per la casa si erano trasformati in operatori di programmi sociali e agenzie di collocamento; una massa ambigua di associazioni, ONG, collettivi culturali e gruppi delle periferie vivevano grazie ai bandi pubblici di diverso tipo e grandezza.[34] E tutti contribuivano ad alimentare una miriade di registri, banche dati e mappature realizzati dai diversi organi statali e privati incluse, ovviamente, le istituzioni di polizia.[35]
Non si tratta di una deviazione: “le ‘basi’, ora, possono esistere solo come contingenti cosificati, debitamente addomesticati e rappresentati, di lavoratori – trattati come monete di scambio dalle burocrazie”.[36] Percependo questa dinamica già negli anni ‘90, un dirigente dei contadini senza terra la sintetizzò in una frase: “popolo in strada, denaro con gli interessi”. Avere una base organizzata significa, effettivamente, gestire popolazioni. Il “lavoro di base” di questi movimenti non è stato abbandonato, ma portato alle sue estreme conseguenze, diventando una tattica manageriale:
Senza di essa la gestione sarebbe impraticabile. (…) Da lì le concessioni materiali come costo economico che garantisce l’operatività e l’ossificazione dei movimenti sociali, la loro trasformazione in bracci dello Stato incaricati di censire la base sociale e amministrare le modeste risorse delle politiche pubbliche, diventando pertanto organi che compiono un ruolo essenziale per il successo della controrivoluzione permanente nel suo formato democratico-popolare.[37]
Da questo punto di vista il clamore della sinistra per l’“organizzazione dei resti” del dopo giugno aveva l’aria di un tentativo farsesco di riannodare i fili della storia, come se fosse possibile recuperare una presunta purezza perduta delle comunità ecclesiastiche di base degli anni ‘70 e ‘80. D’altra parte, serviva anche per fuggire il problema posto dalle piazze del 2013: anonima ed esplosiva, quella rivolta era l’espressione di un proletariato urbano la cui forza lavoro si era formata inquadrandosi nelle più diverse politiche pubbliche, connessa alle tecnologie dell’informazione, impiegata in regimi precari e altamente mobili (in questo senso, la centralità del trasporto pubblico tra le sue rivendicazioni non è casuale).
Oggi, tuttavia, la rivolta sembra combinarsi con l’ordine. Quando a metà del 2018 un movimento orizzontale di camionisti ha fermato l’economia del Brasile con blocchi autostradali da nord a sud, gli interessi e l’organizzazione dei lavoratori sono apparsi mescolati a quelli di alcuni settori degli imprenditori. La stessa ribellione che aveva portato il Paese sull’orlo collasso rivelava come proprio orizzonte il rafforzamento dell’ordine, invocando l’“intervento militare”. I blocchi dei camionisti hanno conquistato un ampio appoggio popolare, con una forte influenza sui settori dei lavoratori urbani (dai riders ai professori)[38], e decretando la fine del “grande accordo nazionale”[39] proposto dal governo Temer – tentativo, già fallito, di garantire la sopravvivenza del vecchio patto politico su un programma di austerità.
Finalmente, la vittoria di Bolsonaro rappresenta la linea di continuità che lega il 2013 al 2018: il conformarsi della rivolta all’ordine. E, di fronte a ciò,
quello che la maggior parte della sinistra ha fatto è creare fronti antifascisti e fronti ampi e democratici in vari luoghi e con forme diverse, proprio per affermare i valori della sinistra contro la crescita dei valori dell’estrema destra – il rosso e nero o colorato contro il verde e giallo della bandiera nazionale, la Democrazia contro la Dittatura. (…) queste posizioni si mantengono in un campo astratto e discorsivo: cosa significa combattere il fascismo oggi sulla punta del fucile? Chi sono i fascisti, i nostri colleghi di lavoro che hanno votato Bolsonaro?[40]
Il nuovo scenario mette alle strette la possibilità di articolare un punto di vista critico. Da un lato, si rinnova il clamore per la riabilitazione del caduco patto democratico di pacificazione, le cui forze si mostrano sempre meno produttive – un appello che proprio per questo si rivela impotente e che tende a rinchiudersi nella difesa dei simboli. Dall’altro, la mera insistenza nella rivolta perde potere di contestazione, visto che ora è il regime stesso a reclamare apertamente la violenza sociale. Imprigionata tra queste due forme di difesa dell’ordine, verso dove va la lotta di classe?
Notas
[1] MC Vitinho, O Crime é o Crime / Dilma Sapatão / Instalar a UPP (2011).
[2] Discorso dell’ex presidente nell’“Atto per la Ricostruzione dello Stato democratico di Diritto”, tenuto in un’aula della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federale di Rio de Janeiro (UFRJ) (11 agosto 2017, disponibile su https://www1.folha.uol.com.br/poder/2017/08/1909354-lula-diz-que-foi-precipitado-considerar-atos-de-2013-democraticos.shtml).
[3] Parliamo qui di “rivolta” poiché questo è stato il termine usato dalla militanza formatasi attorno ai tumulti urbani contro l’aumento delle tariffe sui trasporti scoppiate in tutto il paese tra il 2003 e il 2013. D’altra parte, non tralasciamo di prendere in considerazione la concezione di João Bernardo, per il quale “la rivolta è l’agitazione sotto la bandiera del luogo-comune, proprio l’opposto della rivoluzione, che è la liquidazione dei luoghi-comuni” (Rivolta/rivoluzione, Passa Palavra, luglio 2013,http://passapalavra.info/2013/07/81647/), una distinzione che contribuisce anche all’analisi dei limiti di queste lotte.
[4] “L’unica ‘rivendicazione del movimento’ (…) non era tale, dal momento che non lasciava spazio per nessuna organizzazione, nessun ‘dialogo’. Nel suo carattere totalmente negativo, significava solo il rifiuto di continuare a essere governato così (…)”. Suona familiare questa descrizione fatta nel 2016 dal Comitato Invisibile sulle proteste contro la nuova legislazione del lavoro francese (Comitato Invisibile, Adesso!, 2017).
[5] Vale la pena ricordare, ad esempio, la scena dell’intellettuale del PT Marilena Chauí affermando in una conferenza all’Accademia della Polizia Militare di Rio che i black blocs avrebbero una ispirazione fascista. Vedi ‘Black blocs’ agem com inspiração fascista, diz filósofa a PMs do Rio (Folha de São Paulo, ago. 2013).
[6] Ripercorrendo la scalata repressiva del lungo strascico post-giugno a Rio de Janeiro tra il 2013 e il 2014, il film Operações de Garantia da Lei e da Ordem (Julia Murat, 2017) traccia la linea di continuità tra il discorso di Dilma dopo le proteste e il discorso d’insediamento di Temer: la difesa dell’ordine.
[7] NdT. MPL (Movimento Passe Livre, https://www.mpl.org.br/) movimento autonomo e autogestivo, MBL (Movimento Brasil Livre, http://mbl.org.br/) di estrema destra neoliberista.
[8] Da un lato, abbiamo assistito alla scena di Lula che pur sapendo che la sua condanna fosse una manovra politica, è andato in prigione riaffermando la sua fiducia nelle norme democratiche: “se non avessi avuto fiducia nella giustizia, non avrei formato un partito politico, avrei fatto una rivoluzione in questo paese”. Dall’altro lato, abbiamo visto come l’equipe di campagna di Jair Bolsonaro, pur sapendo che avrebbe vinto le elezioni, non ha smesso di mettere in dubbio la legittimità del voto o di affermare che la vittoria dell’avversario sarebbe stato il risultato di brogli.
[9] Espressione comune nei circoli militanti per designare la strategia disegnata dal cosiddetto campo “democratico-popolare” dagli anni ‘80. Come una morsa, la presa del potere comporterebbe un doppio movimento: dall’alto, l’occupazione graduale degli spazi istituzionali; dal basso, la mobilitazione di massa guidata dalle organizzazioni popolari, i movimenti sociali e i sindacati.
[10] “Per la prima volta, la posta in gioco delle elezioni”, ha detto Paulo Arantes in una recente intervista, “non era disegnare o gestire le politiche pubbliche classiche, era la presa del potere mediante lo scontro politico” (Abriu-se a porteira da absoluta ingovernabilidade no Brasil, diz Paulo Arantes, Brasil de Fato, nov. 2018).
[11] Analizzando i discorsi di Ernesto Araújo, il nuovo ministro degli affari esteri del governo di Bolsonaro, Jan Cenek (in Trump, o Ocidente, o chanceler, o ex-prefeito, o romance e a crise, dez. 2018) giunge a conclusioni simili: “il programma dell’estrema destra supera il riformismo sordomuto perché assume e difende apertamente ciò che l’altro dice che non farebbe, ma che ha fatto e continua a fare. Mantenendo il capitalismo, la repressione è inevitabile, la differenza è che l’estrema destra difende apertamente la militarizzazione e la violenza, mentre il riformismo sordomuto condanna entrambe solo a parole, auto-proclamandosi democratico (ma chi era per strada nel giugno del 2013 sa bene cosa ha fatto Haddad quell’autunno)”.
[12] Emiliano Augusto, A paixão é um excelente tempero para ação, mas uma péssima lente para a análise (Facebook, out. 2018).
[13] Carolina Catini e Renan Oliveira, Depois do fim (Passa Palavra, nov. 2018).
[14] Il fascismo è inteso come un fenomeno storico che non è semplicemente sinonimo di autoritarismo esacerbato, come è stato usato nell’attuale discorso della sinistra. Vale la pena notare, ad esempio, che la dittatura militare brasiliana dagli anni ‘60 agli anni ‘80, sebbene autoritaria e nazionalista, non era esattamente fascista. Per un’approfondita discussione sull’argomento vedi João Bernardo, Labirintos do Fascismo (3a edizione, revisionata e ampliata, 2018).
[15] Per un’analisi di questo progetto di contro-insurrezione preventiva, vedere “Depois de junho a paz será total” (in Paulo Arantes, O novo tempo do mundo, São Paulo, Boitempo, 2013).
[16] L’espressione è usata da Leda Paulani in “Capitalismo financeiro, estado de emergência econômico e hegemonia às avessas” (in Francisco de Oliveira, Ruy Braga e Cibele Rizek [orgs.], Hegemonia às avessas, São Paulo, Boitempo, 2010).
[17] [Espressione che potremmo tradurre con “arrangi precari”, NdT]. Termine reso popolare da una pagina Facebook.
[18] Con Haiti gli autori si riferiscono alla operazione militare internazionale “di pace” lanciata nel 2004 con regia USA ma di cui il Brasile è stato attore largamente protagonista, assumendo il comando delle operazioni, mandando sul campo militari, tecnici, logisti, ingegneri, ONG e portando avanti politiche che molti hanno denunciato come “neocoloniali”. La missione ebbe termine nel 2017. Per morros cariocas si intendono le colline della città di Rio de Janeiro in cui si trovano le più importantifavelas della città, dove il governo di Dilma Rousseff decise un intervento militare per stabilire l’ordine e combattere la criminalità tra 2014 e 2015 aprendo uno stato d’emergenza nella città poi rafforzato da Michel Temer [NdT].
[19] O Aluminista, Sequestro da revolta! (Passa Palavra, nov. 2018).
[20] Principale viale del centro di San Paolo [NdT]
[21] Conferenza di Silvia Viana nel seminario “Alarme de Incêndio: cultura e política na época das expectativas decrescentes” (5 de março de 2016).
[22] Verde e giallo sono i colori della bandiera brasiliana e sono stati adottati come simboli della protesta e più in generale dell’anti-petismo (anti-PT). Comparsi nel giugno 2013, sono diventati una costante dei movimenti di destra contro il Partito dei Lavoratori fino a essere ripresi, più recentemente, dai sostenitori di Bolsonaro nell’ultima campagna elettorale [NdT].
[23] La politica di quote di accesso della popolazione afro-discendente alle università è stata un simbolo dei programmi sociali dei governi del PT [NdT].
[24] Anche se la tattica dell’escrache ha un’origine precedente a sinistra, rifacendosi alle lotte dei familiari di desaparecidos politici in Argentina, è nei contesti identitari che ha guadagnato negli ultimi anni la sua forma più compiuta. Per una narrativa della dinamica di queste azioni, vedi Dokonal, Sobre escrachos, extrema-esquerda e suas próprias novelas: o conto que pensei em escrever (Passa Palavra, jul. 2014).
[25] Su questo, vedi A caça aos ‘falsos cotistas’: austeridade, identidade e concorrência(Passa Palavra, ago. 2017).
[26] “I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. – Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse.” (Marx e Engels. Manifesto del Partido Comunista, 1848).
[27] Caio Martins e Leonardo Cordeiro, Revolta popular: o limite da tática (Passa Palavra, mai. 2014).
[28] Plano de Aceleração do Crecimento (Piano di Accelerazione della Crescita), un progetto nazionale di sviluppo infrastrutturale e logistico in tutto il Paese, lanciato nel 2007, con forti effetti devastatori dal punto di vista ambientale soprattutto in Amazzonia, e con forte finanziamento pubblico della banca di sviluppo BNDES a favore di imprese costruttrici private. Il piano rappresenta la parte brasiliana di un gigantesco progetto di interconnessione logistica sudamericana chiamato IIRSA (Iniciativa para la Integración de la Infraestructura Regional Sudamericana) [NdT].
[29] [Nella centrale idroelettrica di Jirau, in Amazzonia, nel 2011 si verificò uno sciopero selvaggio di più di 80.000 operai, con episodi di distruzione generalizzata, NdT]. Il commento è di un passante che filmava con il cellulare l’incendio negli stabili. L’impatto della costruzione di Jirau, la sollevazione operaia e l’alleanza tra centrali sindacali e governo per reprimere il movimento sono riportati nel documentario Jaci: sete pecados de uma obra amazônica (Caio Cavechini, 2015). Vale la pena vedere anche le testimonianze dei blocchi, omicidi, torture e arresti nei cantieri delle opere del PAC nella regione Nord pubblicati nel corso degli anni dalla Liga Operária (Lega Operaia), gruppo sindacale di influenza maoista che opera nella regione (disponibili qui).
[30] Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra, NdT).
[31] La traiettoria di resistenza degli abitanti dell’Assentamento Milton Santos, che durante il governo Dilma corsero il rischio di soffrire una “riforma agraria al contrario”, fu dettagliatamente riportata da Passa Palavra (vedere qui).
[32] All’inizio di agosto del 2013 Passa Palavra dava notizia di una “primavera silenziata”: solo nella regione di Grajaú furono “circa 20 i terreni spontaneamente occupati da famiglie che non possono più farsi carico del costo dell’affitto (…) È come minimo curioso notare che, nel susseguirsi delle azioni politiche che per convenzione chiamiamo “giornate di giugno” era esploso un processo di lotta diretta da parte dei settori più poveri dei quartieri periferici a cui nemmeno gli organi di comunicazione della sinistra hanno dato la dovuta attenzione.” (Ocupações do Grajaú protestam por moradia no centro de São Paulo, Passa Palavra, agosto 2013).
[33] I rapporti annuali di Balanço das greves pubblicati dal Dieese ci parlano di 2.050 scioperi registrati in Brasile nel 2016 (non sono ancora stati diffusi i rapporti su 2014 e 2015). Ma, come disse Leo Vinicius, un’analisi del periodo deve tenere conto anche degli “scioperi e azioni nei luoghi di lavoro che si realizzarono al di fuori dell’azione sindacale e non registrati da queste statistiche. È probabile che molte azioni autonome di lavoratori organizzati avessero avuto luogo senza che nemmeno ne avessimo notizia.”(Bem além do mito “Junho de 2013”, Passa Palavra, jul. 2018).
[34] Per un affresco di questa situazione, vedere Passa Palavra, Estado e movimentos sociais (Passa Palavra, fev. 2012).
[35] Un caso emblematico è quello del GEO-PR (Sistema Georreferenciado de Monitoramento e Apoio à Decisão da Presidência da República), creato dal Governo Lula nel 2005 con il pretesto di proteggere le comunità quilombolas [popolazioni afro-discendenti un tempo fuggite dalla schiavitù, NdT], le terre indigene e gli insediamenti rurali. “Alimentato dai dati sui movimenti sociali, come ‘manifestazioni’, ‘scioperi’, ‘mobilitazioni’, ‘questioni fondiarie’, ‘questioni indigene’, ‘comportamenti delle ONG’ e ‘quilombolas’ per più di un decennio, diede vita a un “potente strumento di vigilanza dei movimenti sociali, il più grande ad oggi conosciuto” (Lucas Figueiredo, O grande irmão: Abin tem megabanco de dados sobre movimentos sociais, The Intercept, dicembre 2016).
[36] Tratto dall’articolo Revolta popular: o limite da tática (cit.).
[37] Pablo Polese, A esquerda mal educada (Passa Palavra, jul. 2016).
[38] Sulle ripercussioni dei blocchi dei camionisti tra autisti di uber, riders di vario tipo e altre categorie urbane, vedere Gabriel Silva, A greve dos caminhoneiros e a constante pasmaceira da extrema esquerda (Passa Palavra, maggio 2018).
[39] “Michel forma un governo di unità nazionale, fa un grande accordo, protegge Lula, protegge tutti quanti. Questo Paese torna alla calma”, diceva Sérgio Machado, ex-presidente di Transpetro, in una celebre conversazione con il Ministro della Pianificazione del governo Dilma, Romero Jucá, poco prima della votazione dell’impeachment (fuori onda pubblicato dalla stampa nel maggio del 2016, il dialogo lo si trova trascritto qui).
[40] Un altro João, Breve comentário sobre as frentes democráticas e antifascistas contra Bolsonaro (Passa Palavra, dicembre 2018).
Traduzione di Daniele Benzi e Pérez Galloanche pubblicato qui dall’originale in HTTP://PASSAPALAVRA.INFO/2019/01/125118/